Generazione perduta
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Eventi molto negativi, anche quando lontani da noi, possono farci sprofondare nel pessimismo e farci sentire vittime, la mia generazione lo sa bene.

FinanzaCafona ed io, entrambi millennial, parliamo proprio di questo. Questa lettera è parte della serie Punti di vita. Trovate la sua lettera qui.


Amico mio,

Mi dici che, secondo te, siamo una generazione perduta. A provarlo ci sarebbero due crisi finanziarie (dot-com nel 2000 e GFC nel 2008), la pandemia di COVID-19, gli attacchi terroristici degli estremisti islamici e la minaccia della Russia di Putin alle porte d’Europa.

Purtroppo temo che oggi non sarò d’accordo con te.

Esiste già una generazione perduta, se vogliamo rubar loro il triste titolo dovremmo almeno eguagliarne le sciagure, non trovi?

La vera generazione perduta

Secondo gli storici, è composta da chi è nato tra il 1883 ed il 1900. Sono coloro che erano dell’età giusta… per combattere la Grande Guerra del 1915-1918.

Il cimitero militare di Douaumont che ospita i caduti francesi e tedeschi della battaglia di Verdun, che da sola costò la vita a mezzo milione di giovani.

Le vittime totali della Grande Guerra si stimano attorno ai 16 milioni, e più di 20 milioni sono stati feriti o mutilati.

Non è facile capire la portata di quella cifra, ci serve un poco di contesto in più.

L’Italia ha perso nella guerra il 3,5% della sua popolazione ed il 4% fu ferito o mutilato. Oltre il 7% della popolazione ha pagato col sangue il conflitto. No, neanche questo numero è sufficiente per capire davvero.

L’impatto sulla sola generazione perduta è stato sproporzionato: di una popolazione di 5.945.000 maschi (censimento del 1911), l’11% è morto prestando servizio nell’esercito ed il 12% è rimasto ferito o mutilato.

Non basta.

Siccome la sfortuna ci vede benissimo, durante l’ultimo anno di guerra si è diffusa la pandemia d’influenza Spagnola. Da notare che, mentre la Covid19 uccide soprattutto persone anziane o fragili, la Spagnola preferiva i giovani adulti: metà dei morti avevano tra i 20 ed i 40 anni, proprio i nostri amici della generazione perduta. In Italia si stimano 600.000 vittime.

A quanto pare non siamo i primi e credo che non saremo nemmeno gli ultimi. Foto da history.com.

Senti, facciamo finta che le sfortune della generazione perduta siano state solo la Spagnola e la guerra. Insomma, facciamo finta che il 30% degli italiani non vivesse in povertà estrema (contro il 2% scarso odierno), che la mortalità infantile non fosse 100 volte superiore ad oggi (40%+ contro lo 0.3% odierno) e che l’aspettativa di vita alla nascita per loro non fosse di soli 41 anni (contro i nostri 82).

Confrontiamoci con loro, ti va?

Ho una vecchia foto della scuola calcio che frequentavo alle elementari, ci sono io sorridente con altri 19 bambini, venti in tutto. Se fossimo stati della generazione perduta è probabile che 2 sarebbero morti in guerra, 3 feriti o mutilati, 1 morto di Spagnola. Saremmo rimasti in 14.

Così forse rende l’idea?

E invece siamo millennial, e tutti e 20 i miei vecchi amici hanno belle auto, giocano a beach volley sulla spiaggia e godono di tutti i privilegi della nostra epoca. Le uniche cicatrici che ci portiamo dietro le abbiamo rimediate cadendo in bici.

Con quale coraggio possiamo definirci generazione perduta?

A ben pensarci, però, potresti aver ragione: siamo una generazione perduta, nel senso di smarrita.

La generazione smarrita

Siamo l’ultima generazione a non essere nativa digitale. Ricordiamo com’era il mondo prima, come fosse possibile limitare l’uso di Internet, come il lavoro stesse in ufficio e non s’infiltrasse a casa.

Le nostre tradizioni erano ancora tenute in vita dagli anziani, che ricordavano la guerra e la fame e ci trasmettevano le loro preziose lezioni.

Non era tutto globalizzato, le scarpe le trovavi ancora fatte in Italia o nei suoi pressi, e c’erano artigiani che potevano ripararle così da non doverle buttare se erano solo un poco consumate. Si comprava in negozio o al mercato, salvo quelle porcherie che si vendevano in TV sui canali regionali.

Non c’era il telegiornale 24 ore al giorno, non si parlava solo di cronaca nera alla delitto di Cogne, non si urlava qualsiasi cosa pur di ottenere l’attenzione delle persone. Non eravamo così polarizzati né così arrabbiati né così spaventati perché ai tempi l’attention economy era molto primitiva, pochi sfruttavano i nostri punti deboli psicologici per il loro tornaconto e quei pochi li chiamavamo criminali.

Infine, il marketing non era così raffinato e pervasivo. A vedere i vecchi spot televisivi oggi viene da chiedersi come facessero a vendere quella <_materia organica="" anfibia_="">. Oggi siamo profilati fino all’osso, Google mi conosce meglio di mia madre e sa bene come farmi comprare qualsiasi cosa.

Ci ricordiamo quanto basta per averne nostalgia ma non abbastanza da resistere alla “modernità”.

Soprattutto, le generazioni passate non erano affatto smarrite, avevano una enorme bussola a guidarle in ogni momento: la voglia di uscire dalla miseria ed evitare la fame. Noi non abbiamo più quella necessità. Non solo, non crediamo neanche all’idolo della crescita economica e dell’accumulare trofei che ha guidato i nostri genitori.

Siamo una generazione di transizione che ha bisogno di trovare un nuovo significato in quello che fa. Cosa può guidarci?

Foto di Aaron Burden.

Una vecchia bussola

La nostra fortuna (tra le tante) è che possiamo imparare da chi è venuto prima di noi.

Una delle mie fonti preferite è Viktor Frankl, padre della logoterapia. In L’uomo in cerca di senso, che include la sua esperienza come prigioniero nei lager durante la seconda guerra mondiale, egli individua tre fonti principali di significato per la vita umana.

Creare

Realizzare qualcosa che riteniamo importante, che sia una ricerca scientifica, un dipinto o educare un bambino, può essere una grande fonte di significato e motivazione.

Io trovo significato nel lavoro che faccio, nello scrivere questo blog e nel crescere mia figlia e costruire una famiglia solida. Provo a creare qualcosa più grande di me e questo dà senso alla mia esistenza. Le crisi economiche e le guerre lontane hanno scarso impatto sulla mia felicità poiché ho da fare qualcosa in cui credo.

Per quanti di noi il lavoro è solo un modo per racimolare qualche soldo? Quanti sono obbligati a fare un lavoro che detestano per poter mantenere la propria famiglia, o per far fronte a bisogni indotti? E quanti credono di trovare la felicità nel consumo, per poi puntualmente tornare al punto di partenza?

Vivere esperienze

Visitare posti e conoscere culture diverse, può rappresentare di suo un’attività piena di significato. Ancor di più è interessante fare esperienza dell’altro: fare volontariato, aiutare qualcuno o anche solo coltivare con cura una relazione.

Sono cose che andiamo perdendo: ”ognuno per sé!” è il nuovo motto. Inoltre, nonostante viaggiare sia diventato così semplice ed accessibile a tutti, rischia di diventare una esperienza insapore se il nostro obiettivo è sfoggiare il tutto su Instagram e se rinunciamo all’avventura ed alle esperienze profonde per avere la comodità della pensione completa e del tutto organizzato in agenzia.

Ci hanno illuso che il viaggio sia lontano, lussuoso e costoso, ma l’esperienza del viaggio è tanto più autentica quanto più è reale, personale e per certi versi impegnativa. Il che ci porta all’ultimo ago della nostra speciale bussola.

Crescere

Affrontare le difficoltà con attitudine positiva e scoprire modi per migliorarci è l’ultima fonte di significato che propone Frankl.

Possono sempre capitarci le peggio sfortune e spesso non possiamo fare molto per evitarle. Quello che possiamo fare, però, è cambiare il modo in cui le affrontiamo e vederci delle opportunità di apprendimento. Anche le cose peggiori, come una malattia terminale o un grave incidente, possono essere delle benedizioni se noi riusciamo ad estrarvi il meglio.

Ad esempio, mi restò molto impresso, quando avevo 17 anni, l’intervento di un giovane uomo a scuola. Era paralizzato dalla cintura in giù a causa di un incidente in moto ed aveva creato una fondazione per sensibilizzare i giovani alla guida ed aiutare le vittime della strada. La sua vita girava attorno a quella missione e lui, dalla sedia a rotelle, sorrideva di continuo.

Non solo possiamo trarre il meglio dalle sfortune, ma possiamo farlo anche dai nostri errori, qualcosa che predico fino alla nausea.

Invece noi che facciamo? Non siamo preparati per accettare la morte, anche se è inevitabile. Rendiamo la malattia una colpa da nascondere o negare. Ingiuriamo e condanniamo chi sbaglia in buona fede. Educhiamo i bambini ad essere esaminati di continuo e puniti quando sbagliano. Strano che non riusciamo a trarre il meglio dalle disavventure!

Conclusione

Insomma, possiamo tutti usare la bussola di Frankl o le tante altre che ci sono state tramandate, l’importante è trovare un significato per la nostra vita, altrimenti non ci rimane che andare alla deriva fino a farci sorprendere sul letto di morte senza nulla da mostrare sul curriculum.


Vi ricordo che Finanza Cafona ha scritto il suo punto di vista in questa lettera, leggetela!

In copertina: The Phantom Horseman, by Sir John Gilbert (d.1897). <a href="https://unsplash.com/@birminghammuseumstrust?utm_source=unsplash&utm_medium=referral&utm_content=creditCopyText">Birmingham Museums Trust</a>.